Complimenti! Sei ad un passo dalla prenotazione della tua Coaching Intake Session, una videochiamata gratuita attraverso la quale il coach che hai scelto potrà capire quali sono le tue reali esigenze e proporti un piano di coaching su misura per te, solo se sei realmente interessat* a proseguire.

Fabio Franchi
Fabio Franchi

Fabio Franchi

Qualifica Extraordinary:  NLP & Extraordinary Coach

Settore Coaching:  Business

Altre lingue parlate:  Inglese

Fascia prezzo: €€€
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Mi presento

Prima manager e poi imprenditore nel mondo turistico alberghiero, con oltre trent’anni d’esperienza presso player di rilevanza nazionale. Passione e consapevolezza dei propri talenti sono garanzia di performance eccellenti e durature nel tempo, sia in ambito professionale che personale. Se non sai dove sei non puoi andare dove vuoi. Per questo ho sviluppato modelli e strumenti personalizzati per allenare individui, manager e aziende nello sviluppo del capitale umano. Ogni percorso è sinonimo di qualità perché è misurabile e unico. Il tempo giusto per evolvere è adesso.

I miei articoli su Coachee


Problemi? Semplici, Complicati o Complessi?

Secondo la studiosa Brenda Zimmerman ci sono tre livelli di problemi: Semplici Complicati Complessi Per quelli semplici come potrebbe essere fare un dolce, basta avere la ricetta e seguirla, ovvero la ripetibilità di comportamento. Qui si può pianificare e controllare in maniera abbastanza precisa, ripetere ciò che ha funzionato in passato migliorando efficienza ed efficacia. È perciò caratterizzata da esperienza e prevedibilità. I problemi complicati come mandare in orbita un satellite, devono essere pianificati. Per risolverli, si possono scomporre in tanti piccoli problemi semplici ma non disponiamo di una ricetta predefinita. Una volta che avremo lanciato il primo satellite avremo a disposizione un set di istruzioni, che, una volta comprese e assimilate, ci permetteranno di ripetere le azioni. Possiamo agire, fare e rifare ancora rendendolo un sistema relativamente riproducibile. Veniamo adesso ai problemi complessi. In un momento storico nel quale il mercato è diventato “incomprensibile” perché tutto è influenzato su vari livelli, diventa quasi impossibile cogliere la complessità degli avvenimenti nella loro globalità. Adesso non basta più come nel caso di problemi complessi rifarsi all’esperienza precedente perfezionandola avendo una base pregressa su cui operare. Se volessimo ad esempio crescere un bambino, non solo non disponiamo di un manuale, ma anche l’esperienza potrebbe essere di scarso supporto poiché ogni bambino presenta caratteristiche di unicità per cui non è detto che lo stesso approccio adottato con uno, funzioni anche con un altro. La caratteristica dei problemi complessi è l’elevato livello di incertezza del loro output, cioè del risultato finale, e quindi posso solo sperimentare. Sarà quindi indispensabile adottare un approccio “prova ed errore”. Se ti trovi a lavori costantemente in emergenza e tendi ad avere sempre gli stessi problemi, è molto probabile che alla base vi sia la mancanza di vera conoscenza di come funziona il sistema. Questo porta a lavorare esclusivamente reagendo ai problemi senza comprenderne la natura per poterli davvero risolvere. Il perché risiede nel fatto che i sistemi, intesi come aziende ma anche come individui, sono per definizione complessi. Nelle aziende dove vige la "dipartimentalizzazione", sono cioè organizzate in silos, la soluzione di problemi complessi è quasi impossibile. Se i sistemi e ancora di più le persone non sono Agili è quasi certo che non sarà possibile cogliere la complessità delle informazioni e degli avvenimenti nella lora interezza, perché tutto è influenzato su vari livelli. In conclusione per risolvere e gestire i problemi è necessario prima di tutto individuare di che tipo sono e poi, solo poi, si possono apportare i correttivi utili per la loro soluzione, da quelli semplici a quelli più complessi. E tu che tipo di problemi gestisci?

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Perchè i Leader di oggi devono saper creare Ownership

Prima di tutto è utile definire cosa s’intende per Ownership. Il concetto ha due accezioni ugualmente significative: la prima è quella di responsabilità distribuita, tutti sono responsabili di ciò che accade nell’organizzazione. Tutti segnalano e intervengono quando qualcosa non funziona in qualsiasi circostanza e in qualsiasi parte dell’organizzazione, anche se non compete direttamente loro. la seconda è intra-imprenditorialità, cioè persone che determinino che cosa intendono realizzare, che lo condividano con i colleghi e che si assumano la ownership di portarlo a termine. Quindi il passaggio da leadership a ownership è un vero e proprio cambio di paradigma: Non è più “l’uomo solo al comando” da cui dipendono le sorti dell’organizzazione anche in virtù della sua capacità di controllo e coordinamento ma, è l’uomo, il leader, capace di creare una cultura in cui tutti sono responsabili e si fanno carico non solo della propria parte di competenza ma anche di quella dell’intero gruppo. Per passare dalla teoria alla pratica è fondamentale seguire alcuni principi cardine. Quello del miglioramento continuo, alla base di tutto il processo, costituisce un vero e proprio mindset, anche individuale. In poche parole, significa che il prodotto o servizio che si realizza è permanentemente in versione “Beta”. Così facendo si crea una cultura caratterizzata dal costante testare e apprendere. La sperimentazione è la garanzia per produrre innovazione continua il che significa avere una certa dimestichezza con l’incertezza e l’ambiguità e per metterla in atto, occorre creare un ambiente di apprendimento dagli errori in termini di crescita delle competenze. Il secondo imperativo pratico è keep it simple. Produrre solo il necessario che possa dare il massimo valore, verificarlo attraverso feed-back immediati con utenti/clienti reali, modificandolo mentre si incrementa un nuovo aspetto. Veniamo quindi al Do It Yourself che significa fai il meglio che puoi con ciò che hai, che ricorda un po’ il vecchio adagio “meglio fatto, piuttosto che perfetto”. Insomma, non aspettare di avere la tecnologia giusta, la persona giusta, le risorse giuste altrimenti non inizierai mai. Significa che al posto di cercare la tecnologia migliore, prima costruisco con ciò che ho quello che serve a realizzare il mio processo, nel frattempo lo affino e questo mi mette in grado di comprendere la tecnologia che meglio soddisferà le mie esigenze, tecnologia che naturalmente sperimenterò e userò finche funziona sempre pronto a cambiarla. Il mercato di oggi e quello che si sta preparando, è non più in Evoluzione ma in Rivoluzione. Stanno saltando le certezze, non basta più codificare le “best practes”, ci vogliono le “good practes”, perché per definizioni se sono “best” non posso essere né cambiate né migliorate. Quindi anche la leadership si deve evolvere creando “ownership” per rispondere alle sfide del futuro…che è già il presente prossimo.

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Le 5 trappole che un Leader deve assolutamente conoscere

Che tu sia un leader tra le mura domestiche all’interno del tuo nucleo familiare, o che tu lo sia nel gruppo di amici con cui condividi attività sportive o ricreative, oppure ancora, che tu lo sia in azienda per il tuo gruppo di lavoro, le dinamiche e i fattori che possono impedire il pieno successo del lavoro di squadra sono sempre le stesse. Patrick Lencioni, presidente di The Table Group, una società di consulenza della Bay Area di San Francisco specializzata in sviluppo dei team direttivi e nel ripristinare la salute delle organizzazioni, ha identificato nel suo Best seller la guerra nel team le 5 disfunzioni del lavoro di squadra. Conoscerle ci rende quindi consapevoli di ciò che può influenzare negativamente il raggiungimento di quello che ci si prefigge, evitando di vanificare molti dei nostri sforzi per ottenere i risultati attesi. Esaminiamo quindi in dettaglio quali sono i fattori che possono inficiare i risultati di un team, che sia nell’ambito lavorativo o correlato alla sfera personale. Alcuni di questi fattori possono sembrare banali o scontati, ma se vi prenderete il tempo di analizzare una qualunque situazione collegiale, vi renderete immediatamente conto che non lo sono per nulla e laddove un gruppo funziona, questi non sono presenti o sono stati già risolti. Immaginate ora che queste 5 disfunzioni siano rappresentate come una piramide, alla base della quale c’è l'assenza di fiducia. È utile ora, specificare bene, cosa s’intende per fiducia: è la sicurezza, tra i membri del team, che le intenzioni dei propri colleghi siano buone e che non ci sia motivo di essere protettivi o cauti rispetto al gruppo. In sostanza, i compagni devono sentirsi a proprio agio nel mostrarsi vulnerabili l’uno con l’altro. Se i membri di un team che non sono sinceramente aperti l’uno con l’altro sui propri errori e sulle proprie debolezze impediscono di creare i fondamenti per la fiducia. Al gradino successivo, derivante da quest’assenza di fiducia, troviamo la paura del conflitto. Tutte le relazioni facili sono figlie di discussioni difficili (cit. C. Belotti). Molti team tendono per varie ragioni ad evitare il conflitto. È invece fondamentale sviluppare la capacità e la disponibilità a impegnarsi in un “conflitto costruttivo” e per farlo, bisogna anzitutto riconoscere che il conflitto è produttivo. I problemi, quelli sottaciuti non si risolveranno da soli e anzi cresceranno nel perdurare del silenzio. A questo punto, come salendo su di una piramide Maya, quelle fatte a gradoni, incontriamo la terza disfunzione la mancanza d'impegno. Infatti, in assenza di un reale, accalorato e aperto dibattito nel quale i singoli membri abbiano dato voce alle proprie opinioni, le decisioni scaturite in sede di riunione, non verranno interiorizzate e prese in seria considerazione perché non sono né condivise né figlie di un’approfondita discussione. Da ciò ne deriva il sottrarsi alla responsabilità. Questa deresponsabilizzazione è la diretta conseguenza del non sentirsi realmente coinvolti e senza dedizione a un vero piano d’azione, anche le persone più concentrate e determinate spesso esitano a richiamare i propri compagni su azioni e comportamenti che sembrano controproducenti per il bene del team. Arriviamo quindi al top della piramide dove troviamo la disattenzione ai risultati. La scalata non poteva che portarci qui! Ogni singolo membro del team, nel percorrere queste tappe, metterà le proprie esigenze individuali, l’ego, la carriera o il proprio personale riconoscimento al di sopra degli obbiettivi di team. In sostanza, sarà più importante il nome scritto dietro alla divisa di calcio, che quello davanti. È importante non cedere alla tentazione di approcciare queste cinque problematiche come indipendenti l’una dall’altra. Si tratta infatti di un modello inter-correlato, in cui la presenza di anche una sola di esse, è potenzialmente fatale per il successo di un team. Come un solo anello rotto di una catena, tutto il lavoro di squadra si deteriora se si permette anche a una singola disfunzione di prosperare. Se adesso con il tocco della vostra bacchetta magica trasformate il vostro gruppo in un team in cui tutti i membri si fidano l’uno dell’altro, si impegnano in un conflitto costruttivo, mettono impegno nelle decisioni e nei piani di lavoro, si ritengono l’un l’altro responsabili di non remare contro questi piani e si concentrano sull’ottenimento dei risultati collettivi, è praticamente certo che otterrete quanto vi siete prefissati e probabilmente, qualcosa di più. Perché questo metodo abbia successo è essenziale che ci siano alti livelli di disciplina e determinazione a cui pochi team, se non correttamente guidati, possono fare appello. Se sembra semplice è perché lo è. Semplice, non facile, altrimenti lo farebbero tutti.  

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Così non va! Bisogna cambiare.

Quante volte avete ascoltato o detto questa parole? I manager, gli amministratori delegati e gli imprenditori illuminati, vedono e ascoltano i sagnali che impongono modifiche e  sanno – nel loro intimo – che “il cambiamento” non necessariamente, è in meglio. Infatti il coaching, quello ben fatto, non parla di cambiamento, se non in senso “generativo” e quindi – in sostanza – è più utile e funzionale parlare di miglioramento. Nello stesso modo perseguire un obbiettivo e poi sentire d’averlo raggiunto è certamente importante, ne va nel buon esito delle proprie performance. Qui è utile considerare che la cosa fondamentale è quella di definire il proprio scopo: gli obbiettivi, sono la conseguenza. Sapere cioè, il perché si fa quello che si fa è come realizzare un puzzle. Definita la cornice (scopo), una alla volta, tutte le tessere vanno a posto: obbiettivi, comportamenti e azioni. L’obbiettivo è quindi il “come”, lo scopo è il “perché”. Quando sai il perché, tutto diventa più facile, si entra nel “flow” e si crea quell’effetto domino, che partendo da un piccolo miglioramento ha ricadute su tutte, o su molte, delle altre area d’influenza. Le sfide del nostro mondo, in continua e vorticosa trasformazione, fanno pensare che nei momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo, sia utile e opportuno farsi affiancare da un Coach. Giusto e soprattutto utile e lungimirante: c’è una “minaccia” e io reagisco trovando una soluzione. E quando le cose vanno bene? Ancora una volta i manager, gli amministratori delegati e gli imprenditori illuminati, sanno che è soprattutto quando le cose vanno bene che è importante migliorarsi e quindi farsi supportare. Diventano così pro-attivi, anziché reattivi. Anticipano, si preparano e così esprimono la loro leadership, creando valore per se e per gli altri, trovandosi sempre un passo avanti. Se quanto sopra, ha senso, probabilmente significa che condividiamo lo stesso modo di vedere, d’ascoltare e di percepire, quanto c’è di straordinario (cioè, oltre l’ordinario) nel modo d’affrontare le sfide: siano esse personali o professionali. Fare e tantomeno promettere miracoli, non è il mestiere di un buon Coach: individuare e supportare efficacemente il percorso di miglioramento e il processo per raggiungere il massimo livello delle proprie capacità di performare o di quelle del proprio team, invece SI, è quello, il compito di un Coach degno di questo nome.

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Riunirsi o non riunirsi? Cosa centra la legge di Metcalfe

La legge di Metcalfe (anche detta principio della massa critica) afferma che “l’utilità di una rete è uguale al quadrato del numero di utenti che la utilizzano”. Il diagramma di tale legge, in virtù del suo andamento quadratico (2 utenti = utilità 4; 3 utenti = utilità 9; 4 utenti = utilità 16, ecc), ha un punto straordinario, in corrispondenza del quale la curva della tecnologia (in questo caso della rete) raggiunge la massa critica. Da quel punto in poi, ma solo da quel punto in poi, il suo valore cresce esponenzialmente!  (Cit. Valerio Melandri) Qual è però il lato oscuro della legge di Metcalfe secondo l’Harvard Business Review? Poiché il costo incrementale delle comunicazioni uno-a-uno e uno-a-molti è diminuito, il numero di interazioni si è radicalmente moltiplicato. Molti dirigenti ora ricevono circa 200 e-mail al giorno, più di 30.000 all'anno, e il crescente utilizzo di applicazioni di messaggistica istantanea e crowdsourcing promette di aggravare il problema. Se la tendenza non viene controllata, i dirigenti presto trascorreranno più di un giorno alla settimana solo a gestire le comunicazioni elettroniche. Il tempo trascorso in riunione ha subito un incremento enorme. Anche i dirigenti partecipano a più riunioni. Questo in parte perché il costo dell'organizzazione è diminuito e in parte perché è molto più semplice che in passato per i partecipanti partecipare tramite telefono, videoconferenza, condivisione dello schermo e simili. In media, i dirigenti senior dedicano più di due giorni alla settimana a riunioni che coinvolgono tre o più colleghi e il 15% del tempo collettivo di un'organizzazione viene dedicato alle riunioni, una percentuale che è aumentata ogni anno dal 2008. Un interessante studio riportato su Ideas.Ted.com riguardo l’efficacia e l’utilità dei meeting afferma che 9 persone su 10 pensano ad altro, nel 25% dei casi si parla di fatti poco rilevanti, il 50% delle persone trova le riunioni una perdita di tempo, il 73% dei partecipanti durante le riunioni fa altro (generalmente risponde alle e-mail). E c’è di più. Negli Stati Uniti, ma da noi la situazione non è dissimile, gli impiegati partecipano ad una media di 62 riunioni al mese, per gli executive si arriva ad un 50% del proprio tempo, circa 23 ore a settimana. Inoltre, ameno 7 o 8 di queste ore, vengono spese per meeting assolutamente non necessari. Stiamo cioè parlando di 2 mesi di lavoro all’anno sprecati per ogni executive. Allora che fare? Eliminiamo questo strumento dalla nostra routine lavorativa? Direi di no, nell’attuale panorama lavorativo che corre sempre più velocemente ed è sempre più complesso, lo scambio di parerei è fondamentale affinché un numero sempre maggiore di persone possano condividere le informazioni Un management di qualità dovrebbe quindi porsi le seguenti domande prima d’indire una riunione: è davvero necessaria? qual è lo scopo? qual è l’obbiettivo finale? è meglio farla in presenza o da remoto? chi è utile/indispensabile che partecipi? Può sembrare scontato ma il semplice porsi le domande di cui sopra, ridurrà in maniera sensibile il numero di meeting e di conseguenza aumenterà l’efficacia degli stessi e la produttività dei singoli e del gruppo. Qualche suggerimento per gestire al meglio le riunioni. Se si tratta di meeting d’aggiornamento e/o condivisione di problemi da gestire: agenda breve e stringata che deve essere anticipata ai partecipanti almeno 24 ore prima 20’ minuti al massimo di durata (farle “scomode”, ad esempio in piedi, ne garantisce la brevità) mantenere il focus sulla motivazione per cui è stata indetta la riunione evitare tematiche non pertinenti o che esulano dal contesto (se emergeranno saranno oggetto di altro meeting) evitare di prendere decisioni (la riunione è a carattere d’aggiornamento o condivisione, le decisioni sono di competenza di un gruppo ristretto e vanno prese in separata sede) il problema oggetto dell’incontro deve essere stato analizzato prima e quindi soltanto esposto non esaminato durante l’incontro Se invece si tratta di riunioni per prendere decisioni mettendo insieme i diversi reparti interessati ecco i suggerimenti mutuati da Jeff Bezos: invita solo le persone realmente indispensabili (più grande è il team, maggiore è il numero di opinioni e più difficile diventa trarre conclusioni e prendere decisioni. E se ad alcune di quelle tante persone piace solo ascoltare il suono della propria voce, i tuoi incontri sono destinati a rubare tempo) niente PowerPoint, ma un memorandum di massimo sei pagine... strutturato in modo narrativo (contiene frasi reali, frasi tematiche, verbi e sostantivi, non solo elenchi puntati. I promemoria efficaci vengono scritti e riscritti, condivisi con i colleghi a cui viene chiesto di migliorare il lavoro, messi da parte per un paio di giorni e poi modificati di nuovo con mente fresca) inizia con il silenzio (tutti si siedono attorno al tavolo e leggono in silenzio il documento, di solito per circa mezz'ora, e poi s’inizia la discussione. Così si evita il rischio che qualcuno “finga d’aver letto in anticipo il promemoria e non sia realmente preparato) Come avrete certamente capito c’è un’infinita letteratura riguardo la gestione delle riunioni e allo stile d’esecuzione e conduzione. Personalmente credo che vi siano utili line guida che vanno tenute presenti e poi adattate alle singole realtà e al proprio stile di leadership. Qui ho cercato di fornire qualche spunto di riflessione e di riportare alcuni suggerimenti, che ho personalmente sperimento in varie occasioni traendone beneficio. Mi auguro siano utili anche per voi.

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Edonica vs Eudaimonica

Queste due grandi distinzioni compaiono in occidente nelle scuole filosofiche dell’Antica Grecia e più precisamente la felicità come edonia/piacere da Aristippo e i cirenaici, e la felicità come eudemonia/autorealizzazione da Socrate, Platone ed Aristotele. Questi due concetti vengono poi ripresi e approfonditi anche dalla Psicologia Positiva. Lo psicologo Alan S. Waterman definisce l’edonia come semplice piacere e l’eudaimonia come espressione del sé. La prima individua lo scopo della vita nello sperimentare al massimo livello il piacere e la felicità quale risultato della somma dei singoli momenti edonici, mentre la seconda va oltre al concetto di felicità e viene accostata al benessere in senso lato, inteso – secondo Ryan, Huta, e Deci, 2006 - come il risultato dell’inseguimento e raggiungimento di obiettivi positivi. Il benessere sarebbe quindi un processo di realizzazione personale e non il risultato o uno stato finale. In sostanza realizzando il proprio “vero sé” si svolgeranno attività profondamente congruenti ai propri valori e alla propria natura e in grado di impegnare e coinvolgere in modo olistico, così da sentirsi vivi e autentici. Infatti, secondo Csikszentmihalyi, l’essenza della felicità secondo la visione eudimonica, si raggiunge con lo stato di Flow: “E’ lo stato in cui una persona è così impegnata in un’attività che nient’altro sembra importante”. Genera: altissimi livelli di concentrazione sull’attività che si sta svolgendo; irrilevanza per i problemi e qualsiasi altro pensiero al di fuori di quell’attività; il miglior stato emotivo possibile. Per chi come me si è formato all’Extraordinary Coaching School di Claudio Belotti, questi concetti sono basilari quando si lavora con un cliente. È come la differenza che intercorre tra realizzare un obbiettivo e perseguire il proprio scopo. Non necessariamente raggiungere un risultato ci garantirà la felicità. È il perseguire il nostro scopo, assecondano i nostri talenti che ci garantirà la vera soddisfazione. Quando si lavora con un “Coachee” nell’area business accade di frequente di sconfinare nel personale o viceversa. I ruoli vanno bene e sono sacrosanti ma devono essere integrati tra loro, altrimenti si rischia una “felicità edonica” anziché quella “eudaimonica”.

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È difficile andare dove vuoi se non sai da dove parti.

Se non sei convito che quest’affermazione sia vera, basta che pensi al tuo navigatore satellitare. Se non ha la tua posizione di partenza come può indicarti il percorso da fare per raggiungere la tua destinazione? Questo vale in ogni campo, personale o professionale che sia. Per ottenere performance eccellenti e durature nel tempo, bisogna sapere da dove partiamo. In sostanza ci vuole un metodo, uno strumento che ci consenta di: fare “il punto nave”, sapere dove siamo; stabilire la direzione, dove vogliamo arrivare e soprattutto il perché lo vogliamo; stabilire quale/i obbiettivo/i dobbiamo raggiungere per ottenere il risultato voluto. Ci sono molti modi per fare questo. Possiamo ad esempio usare la “tecnica dello scalatore”, si parte quindi dalla vetta da conquistare e poi con una visione dall’alto – cioè più ampia – si percorre a ritroso il percorso, fissando tutte le tappe intermedie e le risorse necessarie a raggiungere la cima della montagna. Io, come punto di partenza, nelle mie sessioni di coaching, uso sovente la  NeuroAgilità™: uno degli strumenti più utili ed efficaci per ottenere i risultati voluti. Certo come anticipato prima, non è l’unico strumento, ma essendo basato sulle neuroscienze è certamente un metodo scientifico e facilmente misurabile. A questo punto mi domando se sei curioso di sapere in cosa consiste. Nel caso in cui lo fossi, proverò a sintetizzare qui di seguito e per sommi capi come funziona. Primo, come detto si fa “il punto nave". Attraverso il N.A.P. (Neuro-Agility Profile®)  un assessment non psicometrico, ciascuno avrà la consapevole di quali sono le sue caratteristiche neurologiche, di quanto è flessibile e quindi in grado d’adattarsi a situazioni nuove imparando velocemente e soprattutto,  di cosa può fare per migliorare le sue performance. Secondo, si stabilisce la “direzione”, cioè ci si allinea al/i proprio/i ruolo/i tenendo conto dei propri talenti e delle proprie uniche peculiarità. Terzo, si definisce/ono l’/gli obiettivo/i, attraverso un metodo misurabile e un costante follow-up per raggiungere i risultati voluti. Quindi ricorda, se non sai dove sei, non puoi andare dove vuoi! Se vuoi saperne di più puoi prenotare la tua sessione gratuita, online.

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